Capitolo I. Storia della cucina italiana: dai Romani a Pellegrino Artusi.

Non possiamo parlare delle origini della cucina italiana senza menzionare  la cucina dell’antica Roma. Prima del III secolo a.C. i pasti dei romani potevano definirsi frugali, ben lontani dai fastosi banchetti di quella che sarà poi la Roma imperiale. Grazie però alle conquiste e la conseguente espansione militare e territoriale, si venne a contatto con le cucine più diverse, prima su tutte quella della magna Grecia, grazie alle colonie siciliane.
 Roma divenne presto il “ventre del mondo” dove, dai paesi più lontani, giungeva ogni genere di derrate alimentari e più erano esotiche e costose più avrebbero avuto successo nella capitale. Il pieno sviluppo dell’arte culinaria si raggiunse nella Roma imperiale del I secolo d.C. dove ogni festa, ricorrenza o vittoria erano validi motivi per organizzare maestosi banchetti a base di carne, pesce, dolci e vino.
Testimonianza diretta di questo stile di vita, ci viene fornita da Marco Gavio Apicio, patrizio romano contemporaneo di Tiberio. Poco o nulla si sa della sua vita e quel poco ci giunge dagli scritti di filosofi come Seneca o storici come Plinio il vecchio che lo criticavano aspramente, indicandolo come esempio particolarmente significativo di come i nuovi tempi andassero via via peggiorando.
Motivo di tale astio? Apicio  può essere definito come uno dei primi gourmet della storia. Interessato all’arte culinaria più raffinata, scrisse il primo libro di cucina della storia, il “De re coquinaria”, una raccolta di più di quattrocento ricette e suggerimenti per la preparazione di vari piatti.
 Seneca così raccontava : “(8) Certo quel nostro dittatore che ascoltò gli ambasciatori sanniti mentre cuoceva sul fuoco un poverissimo cibo con le sue mani, con quelle stesse mani con cui spesso aveva colpito il nemico e aveva deposto una corona nel grembo di Giove Capitolino, certo, doveva vivere meno beato di quanto, a quel che noi ricordiamo, visse Apicio, che in quella città dalla quale, un tempo, i filosofi furono costretti ad andarsene perché corruttori della gioventù, fu maestro di scienza culinaria e col suo insegnamento corruppe tutta un'epoca!". (9) Vale la pena di conoscere la sua fine: dopo aver sperperato in cucina un milione di sesterzi e dopo aver divorato in una gozzoviglia dopo l'altra tante elargizioni di principi e l'enorme tributo del Campidoglio, oberato dai debiti, fu costretto per la prima volta a fare i suoi conti e così calcolò che gli restavano soltanto dieci milioni di sesterzi, e, come se vivere con dieci milioni di sesterzi volesse dire patir la fame, si avvelenò. (10) Quanta dissolutezza in quell'uomo che considerava miseria dieci milioni di sesterzi! Vieni, dunque, ora a dirmi che la ricchezza sta nelle cose e non nell'animo. Un tizio ha avuto paura di dieci milioni di sesterzi e fuggì col veleno ciò che gli altri desiderano con tutti i loro voti. Per quell'uomo, dal cervello così malato, l'ultima bevanda fu la più salutare; ma i veleni li mangiava e li beveva, quando dei suoi smisurati banchetti non soltanto godeva ma si gloriava, quando ostentava i suoi vizi, quando trascinava tutta la città nella sua dissolutezza, quando spingeva i giovani, già così inclini anche senza cattivi esempi, ad imitarlo. (11) Questo capita a chi delle sue ricchezze non fa un uso ragionevole ponendosi dei limiti ben precisi e invece si lascia andare ad abitudini viziose il cui potere è insaziabile e illimitato. Alla cupidigia non basta mai nulla, alla natura, invece, anche il poco è sufficiente. La povertà, dunque, non dà alcun fastidio all'esule, e, infatti, non v'è luogo d'esilio tanto sterile che non sia abbastanza fertile da non poter nutrire un uomo” ( Seneca, ad Helviam X 8-11).
 Plinio lo apostrofava addirittura come “ il più grande scialacquatore e crapulone di tutti i tempi” (Plinio, Naturalis historia X 133).
 In realtà il contributo dato da Apicio  non solo è storicamente importante ma dal punto di vista enogastronomico possiamo considerarlo un vero tesoro. Grazie a questo libro siamo stati in grado di approfondire quali fossero le usanze gastronomiche dei nostri antenati, l’uso abbondante delle spezie per esempio, e nonostante sia stato tramandato sino a noi diventando il testo di letteratura gastronomica più longevo, molte parti sono state modificate o addirittura aggiunte nel corso dei secoli, dalle ripetute trascrizioni ad opera dei monaci di numerosi conventi europei.
 Numerosi studi sono stati portati avanti all’epoca delle migrazioni barbariche e del medioevo, sottolineando l’importanza che questo testo ha avuto e continuerà ad avere.
 Spenti i fasti della Roma imperiale facciamo un salto avanti nel tempo, nel periodo di dominio dell’impero bizantino, delle incursioni di barbari provenienti da varie terre: mongoli, teutoni o scandinavi, che scaldavano la carne cruda sotto le selle dei cavalli.
Siamo nei secoli bui dell’ Alto Medioevo, caratterizzati da invasioni barbariche e condizioni economiche disagiate dove gli uomini, affamati dalle guerre e dalla carestie, si cibano di miglio, panìco ed erbe selvatiche raccolte nei campi abbandonati.
Siamo ora nei secoli XI, XII e XII, in piena età medioevale dove la nascita della società feudale porta ad una lenta rinascita del gusto per i conviti e i banchetti, “ lieto preannuncio di quell’ingentilirsi dei costumi che si affermerà sempre più chiaramente, col passare del tempo” (la cucina italiana nei secoli, giunti editore, pagina XX ).

Di certo gli avvenimenti storici che si susseguirono come il contatto  che si stabilì tra i paesi asiatici e quelli Europei, favorì l’incontro e lo sviluppo di nuovi sapori nel panorama gastronomico occidentale, un po’ come avvenne all’epoca della Roma imperiale. Le spezie erano le vere protagoniste di ogni piatto; pepe nero, cannella, zenzero, chiodi di garofano, cumino, noce moscata, rigorosamente importate dall’oriente o dall’Africa, andavano ad arricchire gli alimenti presenti sulle tavole dei signori feudali durante i loro ricchi conviti.
Ovviamente maggiore era la quantità di cibi serviti, più grande era la ricchezza del signore, le forchette ancora non esistevano al contrario dei coltelli e dei cucchiai e ci si pulivano le mani e la bocca sugli angoli della tovaglia o in apposite acque profumate. La carne era la pietanza per eccellenza, non tanto il manzo che  aveva bisogno di vasti terreni per l’allevamento, quanto maiali, animali selvatici e cacciagione: cervi, cinghiali, porci, pavoni, cigni, fagiani, gru, conigli, polli e molto altro ancora. Il tutto veniva accompagnato da salse a base di aglio, cipolle, miele e spezie come la cannella e lo zenzero che andavano ad insaporire anche il vino, degustato in modo molto più simile alla tradizione dell’antica Roma piuttosto che all’odierna.
 Durante i banchetti non c’era solo l’occasione di mangiare ogni sorta di prelibatezza, ma anche l’occasione di divertirsi grazie a spettacoli appositamente organizzati che intervallavano  il pranzo dei commensali con sfilate di cavalli, falconieri, armi, vesti e gioielli preziosi. Queste abitudini le ritroveremo anche nel secolo successivo.
Nel ‘400 l'Italia riveste un ruolo di primordine per il traffico di spezie con l'Oriente e di vini nel bacino mediterraneo e per le sue manifatture che riforniscono di vetri, argenti e sete le corti e i saloni dei signori pronti ad accogliere ospiti e banchetti.  Rispetto al XIV secolo dove le spezie la facevano da padrona, ora era lo zucchero di canna il re incontrastato dei conviti; si andava sviluppando così anche l’arte dolciaria andando verso un gusto più zuccherino tipico del XVI secolo.
Il passaggio dalla cucina medievale a quella rinascimentale è rappresentato da uno dei capisaldi della letteratura gastronomica italiana il “de Arte Coquinaria”, libro redatto dal più importante cuoco del XV secolo, Maestro Martino da Como. Ebbe il merito di non limitarsi a trascrivere le ricette di altri ma di sperimentare ed inventarne di proprie, con una particola propensione verso sapori non alterati dall’eccessivo uso delle spezie.  La lingua da lui usata per la stesura del libro fu il volgare, denotazione della volontà di essere compreso da tutti, fornendo anche delle soluzioni qualora non si fosse riusciti a reperire un ingrediente piuttosto che una spezia. Altro merito fu quello di inserire nella cucina medioevale elementi di quella catalana, araba e orientale viste le sue conoscenze in proposito.
La diffusione del suo sapere culinario è però dovuta a Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, umanista cremonese e prefetto della biblioteca apostolica vaticana, grande sostenitore di Martino, che trascrisse le sue ricette in latino nell’opera “ De honesta voluptade et valetudine”.
Si continuava l’usanza di accompagnare i banchetti con spettacoli di giullari e buffoni preferendo questi alle sfilate di cani e cavalli, con intermezzi musicali e danze, a dimostrazione della rinascita delle arti classiche che caratterizzerà l’Umanesimo italiano nel ‘400.
Per far capire meglio quale fosse la portata dei conviti e ricreare l’atmosfera suggestiva dell’epoca vi riporto un piccolo resoconto del pranzo del cardinale di S. Sisto: “ il 7 giugno 1473 il Cardinale di S. Sisto offrì in Roma un solenne ricevimento alla Duchessa Eleonora D’Aragona novella sposa di Ercole D’Este Duca di Ferrara. Nella sala riservata al banchetto vi era una credenza fatta a gradini tutta piena di grandi vasi d’oro e d’argento tempestati di pietre preziose in tanta quantità che era un miracolo da vedere. Ma, cosa ancora più stupenda, tutte le vivande servite durante il pranzo furono presentate in argenterie diverse senza mai si ricorresse a quelle esposte sulla grande credenza. Le tavole imbandite furono due. Alla prima sedeva la Duchessa, il Cardinale di S. Sisto, il Duca di Andrai, il Conte Ieronimo nipote del Papa, L’illustrissimo Signor Sigismondo, la Duchessa di Amalfi e l’illustrissimo Messere Alberto. All’altra tavola sedevano il Duca di Amalfi, la Contessa di Altavilla e la Contessa Bucchianico.
Il banchetto si compose di antipasti, di tre servizi, più un servizio di dolci. Le portate furono innumerevoli e ognuno dei tre primi servizi si concluse con la presentazione in tavola di una o più confezioni. Nell’ordine, queste confezioni rappresentavano: la storia di Atlante e di Ipomene; Perseo che libera Andromeda dal drago; Orfeo; Cerere sopra un carro dorato; tre delle dodici fatiche d’Ercole; il trionfo di Venere; ed infine la favola della fanciulle Esperidi e di Ercole che ammazzava il drago Georges guardiano dell’albero dei pomi d’oro.
Dopo i dolci comparvero nella sala otto uomini e otto fanciulle raffiguranti Ercole e Deianira, Giasone e Medea, Teseo e Fedra e altri, tutti convenientemente vestiti. Al loro apparire pifferi e molti altri strumenti cominciarono a suonare e quelli a danzare e a fare mille giuochi. Mentre così essi figuravano di divertirsi, sopraggiunsero altri mimi vestiti in forma di centauri, con scudi e mazze, per rapire le ninfe ad Ercole e compagni.
Ne seguì una bella scaramuccia fra Ercole e questi centauri. Finalmente Ercole li supera e li mette in fuga. Seguì la rappresentazione del mito di Bacco e Arianna e molte altre cose bellissime”. ( dal Trinciante di M.Vincenzo Cervio, 1581.)
L’espressione dell’arte culinaria italiana vivrà uno dei periodi di maggior lustro nel ‘500, grazie ai fasti papali e michelangioleschi. Già nel secolo precedente, Bartolomeo Sacchi cercò di porre ordine nella confusione di portate che si susseguivano durante i conviti, preferendo iniziare il pasto da piatti leggeri e delicati passando dalle minestre, agli arrosti fino ad arrivare al dessert.
 In pieno rinascimento assistiamo inoltre alla comparsa di fritti, pasticci, verdure ripassate con il burro o a mo’ di sformati. Insomma le tavole dei papi, di principi, e mecenati sono le più ammirate del vecchio continente e la fama dei nostri cuochi varcherà ogni confine europeo specialmente quello francese.
Raccolta importante fu “L’Opera” di Bartolomeo Sappi cuoco personale di Pio V, nella quale si consigliavano non solo i metodi migliori per cucinare una pietanza e conservarla nel modo ottimale, ma anche ricette utili per i malati e i convalescenti. Arrivati negli anni barocchi del ‘600 assistiamo allo spostamento dell’epicentro della cultura europea dall’Italia alla Francia del Re Sole, Luigi XIV.
 Raggiunto l’apice nel ‘500 non si ebbero successivi sviluppi significativi per quanto riguarda l’arte culinaria italiana, sennonché si diffuse sia da noi che nel resto del continente l’usanza si bere caffè, cioccolata e tè.
Il primo “caffè” aprì a Venezia, in piazza S. Marco, nel 1683 facendo strada a tutti quelle botteghe che saranno importanti ritrovi per l’elite culturale di intellettuali dei secoli a venire. Le prime pasticcerie di ispirazione francese aprono i battenti, offrendo dolci tipici regionali come il torrone di Cremona, i maritozzi romani, i cannoli siciliani e il gelato, probabilmente nato in Toscana nel ‘500, portato all’eccellenza dai gelatieri siciliani che “esportarono” la ricetta e la loro arte in tutte le capitale europee.
Esponente della classe dei gelatai della Trinacria, Procopio Coltelli aprì il primo cafè-gelateria di Parigi il “Cafè Procope” che divenne un vero e proprio ritrovo per artisti e letterati del XVIII XIX del calibro di Baudelaire, Voltaire, Victor Hugo.
Una piccola curiosità riguardo il menù; Luigi XIV concesse ai dolci di Procopio la patente reale, ossia l’esclusiva di questi al solo pasticcere siciliano.
Messa in disparte dall’antagonista francese, l’arte culinaria italiana non vivrà momenti di innovazione e di prestigio per almeno due secoli, fin quando un buongustaio originario di una cittadina dell’entroterra romagnolo non decise a proprie spese di pubblicare, nel 1891, l’opera per eccellenza della letteratura gastronomica italiana, considerata tale sino ai giorni nostri. Data però l’importanza di quest’ultima, scopriamo il percorso che porterà l’autore a redigere “La Scienza in cucina e l’Arte di mangiare bene” libro da cui trae ispirazione la mia tesi.
 Si parla ovviamente di Pellegrino Artusi! Nato a Forlimpopoli nel 1820 in una famiglia di dodici persone, visse gli anni della gioventù occupandosi degli affari del padre droghiere. Sin da piccolo quindi, sarà a stretto contatto con la “materia prima” del suo futuro successo. Un episodio assai sgradevole segnerà il punto di svolta nella sua vita: lo spiacevole incontro con la banda di briganti di Stefano Pelloni detto il Passatore. Una sera, la banda rapinò tutte le famiglie più in vista di Forlimpopoli, tra le quali quella di Artusi, usando persino violenza su una delle sorelle che non si riprese mai dal trauma  subito. Profondamente turbata dalla rapina, la famiglia decise quello stesso anno, 1851, di trasferirsi a Firenze, città nella quale Pellegrino decise di dedicarsi all’attività commerciale.
Non trascurò però quelle che erano le sue vere passioni ovvero la cultura e la cucina. I suoi primi approcci alla scrittura, una biografia su Foscolo e “Osservazioni in appendice a 30 lettere del Giusti” non furono affatto un gran successo, tanto che dovette affrontare a proprie spese anche la pubblicazione della sua opera più importante. Condusse una vita lunga ed agiata, morendo a Firenze nel 1911, avendo avuto la possibilità di curare l’edizione di sole, si fa per dire, quindici edizioni.

Ma cos’è che rese grande quest’opera? Penso di poter affermare quasi sicuramente, che il fattore che portò l’opera ad avere tale successo, sia stato il modo in cui venne scritto. Nella prefazione della ristampa del 1958, Luigi Volpicelli scrive: “ […]. Egli aveva saputo riallacciarsi ad una tradizione di cuochi letterati e maestri che, dal Rinascimento in poi, costituì un aspetto per nulla secondario della vita umanistica delle nostri corti, e rielaborare per una società nuova di borghesia e di popolo  una materia che era stata gelosamente custodita e trasmessa per principi e re, congiungendola al filone della cucina popolare e regionale, in una sintesi che, per l’epoca in cui fu fatta, acquista un suo preciso significato storico. Il libro dell’Artusi, infatti, non è un mero ricettario e nemmeno […] un libro di gusto, di curiosità, di brio, ma un opera che, per tanti versi, si ricollega allo spirito e al significato del Risorgimento. Non giovò, forse, a fondare e a documentare una nostra cucina nazionale? Di qui il successo enorme che il libro ebbe, raggiungendo il mezzo milione di copie al modo che enorme fu, in quello stesso tempo, il successo di altre opere che in altri campi e in altri modi, esprimevano anch’essi la conquistata Unità. È un fatto che “ la Scienza in cucina” divenne il fondamento dell’ospitalità della società nuova, uscita dalle guerre d’indipendenza,[…].
 Analizziamo ora quegli elementi presi in considerazione nella prefazione che secondo Volpicelli conferiscono all’opera di Artusi tale prestigio:
1.      Si riallaccia alle tradizioni culinarie rinascimentale limitate agli ambienti di corti e le adatta alla nuova classe borghese e popolare.
2.      Si avvicina al popolo con i sui viaggi di regione in regione e la trascrizione delle ricette apprese direttamente in loco.
3.      Simboleggia la conquista dell’Unità da parte della nostra penisola.
Il target di riferimento delle ricette cambia decisamente, tendendo sempre più ad una cucina borghese – popolare, non per questo meno importante. Ogni ricetta è accompagnata da aneddoti e commenti dell’autore stesso sulla storia del piatto, da chi, per esempio, ne abbia appreso la preparazione e i suoi personali consigli sulla preparazione dati in base alla sua esperienza con la pietanza in questione; Artusi infatti scrive ogni ricetta solamente dopo averla provata lui stesso, usando quindi un metodo sperimentale e riportandone i risultati.
Sebbene con uno stile elegante e raffinato, si rivolge al lettore in modo quasi fraterno, sembra addirittura si preoccupi che questo riesca facilmente nella preparazione della pietanza, guidandolo passo passo verso il successo. I lettori si identificano con i sui scritti poiché riportano ricette che sembrano facilmente eseguibili anche dai meno abili e ricette regionali fedeli alla tradizione.
 Dai classici della cucina lombarda, come le  tre varianti del risotto alla milanese, passando per i dolci tipici dei paesi altoatesini , per i cappelletti romagnoli, i ricciarelli senesi, il fritto alla romana e i dolci tipici napoletani e siciliani, ripercorriamo interamente l’Italia, da nord a sud, alimentando così il senso di unità nazionale conquistata da appena trenta anni.
 Io stessa ho provato a cucinare delle ricette tratte da “La Scienza in cucina e l’arte di mangiare bene” per testare in prima persona la sua fruibilità ai giorni nostri. Sono rimasta sorpresa non tanto dalla semplicità delle istruzioni e dei passaggi spiegati punto per punto, quanto dalle numerose alternative proposte qualora si preferisse un gusto ad un altro. Per dimostrare quanto siano fruibili le ricette dell’Artusi, riporterò la ricetta da me provata:

STRUDEL
Non vi sgomentate se questo dolce vi pare un intruglio nella sua composizione e se dopo cotto vi sembrerà qualcosa di brutto come un’enorme sanguisuga , o un informe serpentaccio, perché poi al gusto vi piacerà.
·        Mele renettes, o mele tenere, di buona qualità, grammi 500.
·        Farina grammi 250.
·        Burro grammi 100.
·        Uva di Corinto, grammi 85.
·        Zucchero in polvere, grammi 85.
·        Raschiatura di un limone.
·        Cannella in polvere due o tre prese.
Spegnete la farina con latte caldo, burro quanto una noce, un uovo e un pizzico di sale per farne una pasta piuttosto soda che lascerete riposare un poco prima di servirvene. Tirate con questa pasta una sfoglia sottile come quella dei taglierini e, lasciando gli orli scoperti, distendetevi sopra le mele che avrete prima sbucciate, nettate dai torsoli e tagliate a fette sottili. Sul suolo delle mele spargete l’uva, la raschiatura di limone, la cannella, lo zucchero e infine i 100 grammi di burro liquefatto, lasciandone un po’ indietro per l’uso che sentirete. Ciò fatto avvolgete la sfoglia sopra se stessa per formare un rotolo ripieno che adatterete in una teglia di rame, già unta col burro, assecondando per necessità la forma rotonda della medesima; col burro  avanzato ungete tutta la parte esterna del dolce e mandatelo al forno. Avvertite che l’uva di Corinto, o sultanina, è diversa dall’uva passolina. Questa è piccola e nera, l’altra è il doppio più grossa, di colore castagno chiaro e senza vinacciuoli anch’essa. Il limone raschiatelo con un vetro.
Ho voluto dimostrare quanto Pellegrino Artusi sia stato importante per la storia della gastronomia italiana, per averci trasmesso un intero patrimonio di ricette nazionali e per aver fatto da guida a tutti gli appassionati di cucina con i suoi scritti che nonostante i 121 anni sono ancora estremamente attuali.